Quarant’anni fa l’inizio dell’epidemia che fece milioni di morti e infetti in tutto il mondo. Lo Spallanzani in prima fila nell’accesso ai test per le diagnosi e l’accoglienza nella stanza 13. Ma ancora la malattia non è stata eradicata, colpa anche della diminuzione fin dal 2011 dei fondi finalizzati alla ricerca sul campo. Nuovi trattamenti e speranza di vita per chi vive con l’infezione. Ne parla Andrea Antinori direttore della UOC di immunodeficienze virali dello Spallanzani, al microfono di Stefania Pascucci
Professore Andrea Antinori, il 1.º dicembre ricorre la giornata dedicata alla lotta contro l’HIV/AIDS. Il rapporto UNAIDS 2023 pubblica numeri da bollettino di guerra. Nel mondo, nel 2022, 39 milioni di persone convivono con l’HIV, 1,300 milioni hanno contratto l’infezione, 630mila sono morte a causa di una malattia correlata all’AIDS, quasi 30 milioni hanno avuto accesso alla terapia antiretrovirale e dall’inizio dell’epidemia, più di quant’anni fa, 85,6 milioni sono state infettate dall’HIV e 40,4 milioni sono morte per AIDS. Sono dati da non sottovalutare.
Questi dati, appena comunicati da UNAIDS, l’Agenzia delle Nazioni Unite, sono impressionanti ed è chiaro che la mortalità nei primi anni dell’epidemia è stata spaventosamente alta. In questi ultimi anni è molto più bassa. Ma il fenomeno esiste, nel senso che il numero di persone infettate aumenta ogni anno perché se ne infettano circa più di 1 milione e ne muoiono molto poche, per fortuna. C’è una crescita continua di persone che vivono con l’HIV ed è ancora un grande problema che interessa tutti i continenti, in particolare l’Africa subsahariana, l’Est Europa, l’Africa occidentale, l’America latina, l’Asia e anche l’Europa. Nel 2022 abbiamo avuto 1888 nuove diagnosi di HIV, con una tendenza progressivamente alla riduzione negli ultimi anni. Negli ultimi tre anni, dopo la pandemia da Covid- 19, c’è stato invece un leggero aumento dei casi.
L’aumento dei casi c’è stato perché le persone con HIV durante il periodo Covid non si sono curate?
Questo è stato vero a livello globale, per Paesi come quelli africani e anche per noi dove la pandemia da Covid-19 ha avuto un effetto negativo su altre malattie, ma in particolare sulla HIV, perché c’è stata una riduzione dell’accesso al test, c’è stato un ritardo possibile nelle diagnosi perché nel 2020 sono crollate e poi dal 2020 stiamo assistendo ad una risalita che, a giudizio degli esperti, non è tanto reale in termini di nuovi contagi. Si tratta di una malattia essenzialmente a trasmissione sessuale. I dati italiani dicono che l’83% delle diagnosi riguardano questo tipo di trasmissione. A livello globale sappiamo che ci sono 39 milioni di persone con HIV e 30 milioni circa che sono in trattamento, quindi ne mancano nove all’appello. Dato che va letto nella sua componente positiva perché, in particolare in Africa, l’accesso alle cure negli anni passati era molto più basso. Non è più così grazie ad alcuni grandi progetti come quelli della comunità di Sant’Egidio che opera in ben dieci Paesi africani.
Quanto incide la prevenzione nella cronicizzazione?
Per le nuove diagnosi i problemi riguardano la prevenzione e sono legati al fatto che se si infettano persone per una malattia a trasmissione sessuale evidentemente alcuni messaggi non sono passati, ad esempio, il rispetto all’uso del profilattico, un presidio che protegge in maniera eccellente dalla trasmissione. Per chi non indossa costantemente il profilattico e frequenta contesti a rischio abbiamo la PrEP, la profilassi pre-esposizione che consiste nell’assumere farmaci antiretrovirali in misura diversa e minore rispetto ai farmaci che si utilizzano per la terapia HIV per potersi proteggere dalla trasmissione in termini di mortalità o di complicanze della malattia. Un altro problema riguarda le diagnosi tardive. Sappiamo che in Italia, ma anche in Europa, più del 50% delle nuove diagnosi avvengono in condizioni avanzate di malattia, quando la persona con HIV ha già dei sintomi correlate alla malattia. Un problema questo perché aumenta la mortalità. La terapia antiretrovirale funziona molto bene anche nelle persone che fanno diagnosi tardiva, però, con una diagnosi precoce si può ottenere una terapia molto più efficace.
Prima si interviene e meglio è.
Prima si combatte l’infezione e migliori sono i risultati. Significa fare emergere tutte le diagnosi che ci sono in questo momento. Le stime su Roma dicono che ci sono circa 12mila persone infette in questo momento ma non sanno di esserlo. Sono persone che devono emergere per potersi curare.
Interessante, ma come potete essere in possesso di certi dati, visto che neanche le persone interessate sanno di essere infettate da HIV?
Ci sono dei modelli matematici che servono per stimare questo dato e che consentono di calcolare quant’è la stima del sommerso, il numero di persone infette che non hanno ancora avuto una diagnosi.
A quale target di persone bisogna fare appello?
Tutta la popolazione sessualmente attiva, non si devono identificare delle abitudini degli stili di vita o peggio ancora delle considerazioni di natura morale ma sono semplicemente dei comportamenti a rischio.
Parliamo della legge nata negli anni ‘90 per prevenire l’HIV/AIDS e garantire l’accesso al SSN. Secondo lei, questa normativa, in una società profondamente differente rispetto ad allora e in cui le cure sono diverse da quelle del passato, va cambiata?
Fu una legge avveniristica, solo pochi Paesi avevano una legislazione così avanzata e sulla base della legge italiana sono stati costruiti e riorganizzati i reparti delle malattie infettive, sono stati aumentati gli organici ed è stata data l’esenzione a tutte le persone con HIV e con essa si è combattuto anche lo stigma sociale. C’è una proposta di legge, di revisione della 135 portata avanti da qualche anno da un gruppo di parlamentari capeggiati dall’onorevole Mauro D’Attis. Un testo al quale hanno collaborato la comunità scientifica, il mondo delle comunità, delle associazioni dei pazienti di volontariato, degli attivisti.
Il programma nazionale HIV/AIDS è terminato nel 2011 in Italia. Che cosa si può fare per ripristinare il fondo vincolato alla ricerca?
Oggi la terapia antiretrovirale consente di controllare precocemente e di cronicizzare l’infezione, ma non abbiamo ancora la possibilità di eradicare l’infezione. La persona con HIV si può cronicizzare ma non si può curare. Questo ci riporta alla ricerca, perché la sfida su HIV non è affatto finita. Abbiamo 39 milioni di persone infette nel mondo e ne abbiamo oltre 130mila infette in Italia in questo momento. E per queste persone sarebbe molto importante curare l’infezione, guarirla nel senso proprio più completo del termine. In passato il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di sanità organizzarono il Programma nazionale AIDS nel quale tutti noi ricercatori siamo “cresciuti” e formati. Poi nel 2011 finita la fase strettamente emergenziale, ma non la malattia, le istituzioni decisero la chiusura del programma e di ricondurre i finanziamenti per HIV ai programmi generali di finanziamento annuale.
Ogni anno si decide quali risorse attribuire alla ricerca su HIV/AIDS.
Il Ministero della Salute e quello della Ricerca attribuiscono fondi annuali che rientrano nella grande programmazione della ricerca. Non avere più quel programma è un peccato. Avere un capitolo dedicato alla HIV/AIDS, una malattia ancora non risolta, porterebbe alla sua eradicazione.
Nel nuovo Disegno di legge di revisione della 135 c’è la riattivazione di finanziamenti ad hoc per la ricerca su HIV/AIDS?
Il capitolo di finanziamento della nuova, auspicabilmente, 135 non potrà coprire tutte le esigenze di ricerca, c’è bisogno di ripensare il problema dell’HIV cercando di riconsiderare complessivamente i finanziamenti della ricerca in Italia.
I ricercatori in Italia la pensano come lei?
Su questo argomento tutti gli addetti ai lavori hanno una sola voce. E ci aspettiamo massima sensibilità dalle istituzioni. Prova ne è che anche quest’anno il Ministero della Salute ha dedicato grandissimo spazio all’HIV nella campagna di comunicazione che è stata gestita insieme allo Spallanzani. Siamo stati un soggetto portante della comunicazione nella Giornata mondiale che ci sarà venerdì 1.º dicembre al Ministero della Salute evento il quale vedrà la nostra partecipazione.